A Tokyo è ufficialmente partita la caccia ai cosiddetti taxi bianchi. Quando un veicolo senza licenza è usato illegalmente per trasportare dei passeggeri a pagamento viene indicato come shiro taku, taxi bianco. Le targhe bianche in Giappone appartengono ai veicoli di proprietà privata, mentre i taxi regolari sono identificati da targhe di colore verde scuro. Nella maggior parte dei casi gli abusivi sono conducenti cinesi che si avvalgono dell’uso di App per offrire i loro servizi di autonoleggio ai connazionali in visita nel Paese. A fornire il servizio è prima di tutto la società cinese Didi Chuxing, fondata cinque anni fa e attualmente la più grande impresa di trasporti della Cina.
È detta anche l’Uber cinese, perché fornisce veicoli e taxi su chiamata tramite applicazioni via telefono cellulare proprio come l’azienda di San Francisco che per prima, in America e in Europa, ha cominciato a fare la guerra ai taxi tradizionali. A maggio del 2015, Didi Chuxing poteva contare già su 1,35 milioni di conducenti che operavano in 360 città, con 4 milioni di chiamate quotidiane (oltre un miliardo e 400 milioni in un anno, quanto l’intera popolazione cinese). L’azienda si è subito inserita nel grande mercato giapponese, di fatto scalzando la concorrente Uber. In Giappone, il vantaggio dei taxi bianchi rispetto a quelli regolari è che, oltre a essere ovviamente meno costosi, offrono la possibilità di pagare via telefono (da questo punto di vista i taxi locali tradizionali sono rimasti fermi all’era analogica), ed è sempre possibile verificare l’identità del conducente. Fra due anni, poi, è atteso un vero boom di chiamate: nel 2020 a Tokyo si terranno Olimpiadi e Paralimpiadi, e la maggioranza dei 40 milioni di turisti previsti (il doppio di quelli che arrivano qui ogni anno) dovrebbe provenire proprio dalla Cina, dove sono 300 milioni gli iscritti alla App (450 milioni nel mondo).
Ma il calcolo delle perdite di introiti fiscali ha fatto alzare la soglia di sorveglianza da parte del governo di Tokyo. Solo nella capitale giapponese circolano circa cinquantamila taxi e il mercato nazionale ha registrato un fatturato di 1,73 trilioni di yen (14 miliardi di euro): ma il business è calato sensibilmente di un terzo negli ultimi anni (anche per il trasporto pubblico che funziona meravigliosamente ed è molto più economico). IN REALTÀ, LA LEGGE sul trasporto stradale giapponese già vietava i taxi bianchi: chi viene trovato a trasportare passeggeri senza possedere una licenza rischia la reclusione fino a tre anni e una multa fino a tre milioni di yen (22mila euro). Molti conducenti cinesi, però, hanno trovato le contromosse: ad esempio, presentandosi, attraverso il servizio rent-a-car, come semplici auto a noleggio, rendendo difficile l’individuazione di conducenti illegali. Il governo ha risposto lanciando, di recente, la campagna “Non prendete i taxi bianchi”, con la distribuzione di volantini negli aeroporti. Ma la toppa è finita per essere peggiore del buco: ora non solo i cinesi ma anche i taiwanesi (che scrivono nella stessa lingua), avvertiti dalla campagna, hanno scoperto l’esistenza di questo modo economico per spostarsi nelle grandi città del Giappone. E hanno cominciato a usarlo, anche perché per i passeggeri non è prevista alcuna sanzione. le autorità giapponesi hanno ufficialmente giustificato il giro di vite sul trasporto illegale con ragioni di sicurezza.
Nel Paese esistono norme specifiche per le imprese commerciali di trasporto passeggeri: impongono come calcolare le tariffe o dove posizionare la segnaletica all’interno e all’esterno di un veicolo. Per ottenere la licenza, i conducenti devono superare un esame e un test su strada. È proprio per questi vincoli che Uber, in Giappone, si è trovato fin da subito in difficoltà. uber, proprio come il clone cinese che le sta sottraendo quote di mercato nel Paese del Sol levante, non chiede ai suoi conducenti di possedere licenze di taxi, né assicurazioni, né di aver superato ispezioni sulla sicurezza. Partito qui nel 2015 con un progetto pilota nella città di Fukuoka, poi sospeso per violazione delle regole, Uber si ritrova oggi con una otta assai ridotta, presente solo in alcune zone dei grandi centri, e non è certo il servizio economico per cui è conosciuto nel mondo come il nemico dei taxi ufficiali: è diventato invece un servizio a chiamata a cui si appoggiano per lo più gli operatori legali del settore, ovvero le imprese di taxi già avviate.
Nel PaeSe del Bushido, l’austero codice di condotta adottato dai samurai, farsi gioco delle regole è intollerabile e proprio per questo le sanzioni vengono applicate severamente. Nel caso del trasporto illegale, tuttavia, l’infrazione commessa risulta sempre difficile da contestare: i passeggeri di un taxi bianco di fronte a un’ispezione possono semplicemente dichiarare di essere conoscenti dell’autista. I giapponesi, soprattutto i meno giovani, da sempre contrari a correre rischi, preferiscono però il servizio di taxi tradizionale. Otto volte su dieci lo chiamano alla vecchia maniera: in strada con la mano. Le porte delle auto si aprono automaticamente, e solo dal lato del marciapiede, per motivi di sicurezza. Il conducente è spesso un signore di mezza età e di grande esperienza, dal comportamento assai formale. Guida indossando l’uniforme: abito ben stirato, guanti bianchi, cravatta e cappello, che in combinazione con il nero lucido della gran parte delle vetture fanno sentire ogni cliente quasi una celebrità. I taxi stessi sono sempre puliti in modo impeccabile. Ci sono anche i taxi rosa, portati solo da donne, per coloro che con una guida al femminile si sentono maggiormente a loro agio. Ma c’è un’ulteriore ragione per cui il servizio di Uber o di Didi Chuxing, al di là del successo che riscontra tra i turisti in visita nel Paese, fatica a prendere quota tra i residenti. Ha a che fare con la nota diffidenza che i giapponesi nutrono verso gli sconosciuti. Un intraprendente insegnante ha condotto un sondaggio in un villaggio di campagna, popolato da moltissimi anziani, chiedendo di scegliere fra un’auto Uber o un taxi normale. Nell’esperimento è stato spiegato che i conducenti del nuovo servizio si sarebbero presentati con la propria auto privata, senza licenza di trasporto. Gran parte del campione di anziani sondato, al solo pensiero di dover salire sull’auto di un estraneo, è quasi svenuta per lo shock. Del resto, se si considera che in Giappone, quando ci si incontra per la prima volta non ci si stringe la mano ma ci si scambia il biglietto da visita che viene letto attentamente per inquadrare l’interlocutore all’interno della struttura sociale, non c’è da stupirsi.
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